Alchimia: la medicina proibita

L’alchimia è conosciuta nell’immaginario collettivo come una sorta di magia, capace di trasformare il piombo in oro.

Ma questo è riduttivo: gli alchimisti cercavano il rimedio universale che curasse tutte le malattie (la panacea) e l’elisir di lunga vita, una bevanda leggendaria capace di prolungare la vita umana.

Gli alchimisti erano infatti molto interessati all’essere umano, alla salute e alle malattie, oltre che ai metalli preziosi: possiamo considerarli come una sorta di medici e, del resto, hanno dato un contributo decisivo all’avvento della medicina moderna.
È una storia strana… e ve la raccontiamo.

Gli alchimisti: i precursori della medicina moderna

Le prime prove di alchimia conosciute oggi sono quelle di Teofrasto, un filosofo greco del IV° secolo A.C., mentre alcuni storici fanno risalire le società segrete di alchimia all’antico Egitto. Nella nostra immaginazione l’alchimia però è associata soprattutto a saggi e stregoni del Medioevo: e con ragione.
Alla fine del Medioevo, nel 1493, nasce il famoso alchimista e astrologo svizzero che avrebbe rivoluzionato la medicina: Philippus Theophrastus Aureolus Bombastus von Hohenheim, conosciuto con il nome di Paracelso. Avrete notato che il suo secondo nome ufficiale era “Teofrasto”, come il primo alchimista dell’Antica Grecia, e non è un caso: il padre di Paracelso, Wilhelm Bombastus von Hohenheim, era lui stesso un medico ed un alchimista, e aveva voluto battezzare il figlio con il nome del grande maestro dell’alchimia.
La famiglia di Paracelso viveva nell’abbazia benedettina di Einsiedeln, in Svizzera, sulla riva del lago dei Quattro Cantoni. Paracelso fu iniziato ai primi segreti dell’alchimia proprio dal padre abate di quell’abbazia.

Paracelso si ribella ai principi della medicina di Ippocrate

All’epoca di Paracelso, la medicina era confinata alle teorie di Ippocrate e di Galeno, trasmesse al Medioevo dalla medicina araba. Questa medicina era basata sulla “teoria degli umori”, e consisteva nel dare ai malati delle complicate misture di piante, minerali e parti di animali: si pensava una formula più era complessa, più sarebbe stata efficace. Da qui l’uso di carne di serpente, sangue di feto, veleno di scorpione e bava di rospo, per comporre pozioni, misture e elisir considerati magici. Il più conosciuto tra questi, la “teriaca” (dal greco antico “thériakè”, cioè antidoto), la cui origine risalirebbe all’antico re Mitridate, contava fino a cento ingredienti (tra cui la carne di vipera).
Il problema, naturalmente, era che quando queste pozioni avevano un effetto benefico sul paziente, era impossibile sapere a quale ingrediente attribuire il suddetto effetto. Peraltro, le pozioni o le misture che conteneva decine di ingredienti, non potevano essere riprodotte facilmente in un’epoca in cui la classificazione dei vegetali et degli elementi naturali non era ancora rigorosa.

Alla ricerca della “quintessenza” delle cose

In qualità di alchimista, Paracelso sapeva fondere dei metalli per purificarli, e realizzare delle leghe. Conosceva i princìpi dell’ossidazione e della riduzione. Sapeva che i metalli potevano formare dei sali, che potevano poi essere solubili ed entrare quindi a far parte di soluzioni bevibili.

Era convinto che ogni oggetto avesse dentro di se una sorta di spirito etereo che lui chiamava “quinta essenza delle cose” o “quintessenza delle cose”.

Supponeva che ogni pianta, minerale, sostanza su terra fosse esistita – durante la creazione dell’universo, in una forma pura e incontaminata.
Paracelso pensava che poi, nel tempo, gli elementi si fossero mescolati e caricati d’impurità: e questo fenomeno aveva diminuito le loro proprietà curative e li aveva resi tossici.
Se però fosse riuscito a ritrovare lo stato di purezza originale delle sostanze terrestri, esse avrebbero potute essere impiegate come medicine e guarire tutte le malattie.
Dopo aver viaggiato in tutta Europa, non soltanto per esplorare le miniere dei metalli ma anche per seguire lezioni di medicina nelle più importanti università, Paracelso concluse che gli insegnamenti di medicina non avessero alcun valore: rinnegò le teorie di Ippocrate e di Galeno e si rifiutò di prestare il giuramento di Ippocrate quando fu nominato professore di medicina all’Università di Bâle, nel 1527.
Qualche settimana dopo, nel giorno di San Giovanni, Paracelso bruciò nella pubblica piazza diverse copie della grande opera del medico arabo Avicenna (Ibn Sina),  il Canone della medicina, asservito anche lui ai princìpi di Ippocrate.
Intraprese poi i primi tentativi di “monoterapia”, ovvero la somministrazione ai malati di una sola sostanza alla volta, in opposizione alla “polifarmacia”, le misture complicate che erano state i marchi di fabbrica di Galeno e Ibn Sina.
Peccato che, in quanto alchimista, iniziò con sostanze tossiche come il piombo, l’oro, il mercurio e l’antimonio. E fu una catastrofe.
Sotto la sua influenza, i sali di mercurio divennero il trattamento ufficiale della sifilide, con degli effetti orribili per il paziente:
« Senza esitazione, spalmate questa misture sul vostro corpo e ricopriteci interamente la vostra pelle…. Ricominciate per dieci giorni consecutivi… Molto rapidamente, sentirete che i fermenti della malattia si dissolveranno da soli nella vostra bocca, producendo un flusso disgustoso di saliva » spiegava nel 1530 ad uno dei suoi discepoli, il medico italiano Girolamo Facastoro. Oggi sappiamo che questa intensa salivazione è provocata dall’intossicazione da mercurio, dato che il corpo tenta di sbarazzarsi in tutti i modi di questo veleno spaventoso. Questo trattamento è stato però applicato per secoli, e negli anni ’50 si trovavano ancora pasticche di mercurio e digitale, che venivano prescritte come diuretici.

In ogni caso, il principio di Paracelso di somministrare un prodotto unico e il più puro possibile, porta infine alla scoperta dei primi moderni trattamenti medicinali efficaci.
Il primo fu per la cura della malaria, a partire dalla radice di china (Cinchona officinalis) portata nel XVII° secolo in Europa dai Gesuiti dell’America del Sud che, purificata, produce un alcalino di grande importanza in medicina: il chinino.
È questo stesso principio che consentì a William Piso, un medico olandese che soggiornò in Basile nel 1648, la scoperta della radice di ipeca (Cephaelis ipecacuanha) e quindi la cura contro la dissenteria.
La purificazione dell’oppio, che produce la morfina, porta nel XIX° secolo a dei progressi nel trattamento del dolore e ai farmaci per la tosse a base di codeina (un derivato della morfina).
Oggi tutta l’industria farmaceutica è basata su questi sforzi di ricerca e purificazione delle sostanze, delle quali viene poi misurata l’efficacia con test e ricerche cliniche.

« E’ la dose che fa il veleno »

Paracelso apportò anche un altro contributo fondamentale alla medicina, anche se fu accidentale.
Constatando gli effetti disastrosi dei sali di mercurio, oro, piombo e antimonio sui suoi pazienti, non si lasciò abbattere ed enunciò una formula che avrebbe poi avuto un successo planetario ed universale, giustificando in anticipo gli esperimenti più folli dei suoi successori:

« Tutto è velenoso, e niente è senza veleno: solo la dose determina ciò velenoso che non è. »

In parole povere: se i suoi pazienti morivano avvelenati da piombo, oro o mercurio, non era perché piombo, oro e mercurio fossero tossici, bensì perché la dose somministrata era troppo elevata!
Oggi sappiamo quanto questo principio sia falso: il mercurio, il piombo e l’oro sono sempre tossici, anche a piccole dosi. Certo, al di sotto di una minima quantità, il nostro organismo sopravvive, ma non esiste alcuna dose alla quale il mercurio, il piombo e l’oro non siano tossici.

Ciononostante, questo audace principio portò ad una quantità di scoperte che avrebbero rivoluzionato il destino dell’umanità.

I medici che lo succedettero cominciarono così a “osare” somministrare, a piccole dosi, ogni sorta di prodotto ai loro pazienti, compresi quelli noti come velenosi. E fu così che furono fatte molte scoperte rivoluzionarie. La purificazione dei metalli e la formazione dei sali organici divenne il pilastro principale della medicina, fino ai giorni nostri. Ricordiamo che:

  • le cure di litio rimangono tutt’ora un trattamento d’attacco contro le patologie maniaco-depressive;
  • i  sali ferrosi (carbonato, citrato, fumarato, gluconato, iodio, lattato, fosfato e succinato) sono utilizzati contro l’anemia e ciò che una volta erano chiamate le clorosi;
  • l’arsenico (arsfenamina) ha permesso di trattare la malattia del sonno e la sifilide (Salvarsan) e oggi è usato in chemioterapia contro la leucemia;
  • anche il platino viene usato contro diversi cancri (ovaie, testicoli, cancro al polmone a piccole cellule);
  • e i trattamenti di reidratazione necessitano di soluzioni mineralizzate, anch’esse ottenute con i metodi sviluppati in origine dagli alchimisti.

La scoperta dell’alcol puro

Sempre grazie agli alchimisti, nel XIII° secolo la distillazione aveva fatto grandi progressi  grazie all’invenzione di nuove forme di vetro, che permettevano la distillazione frazionata.
Così dalla distillazione del vino fu scoperta l’acquavite (acqua vita) dal monaco francescano spagnolo Joannes de Rupescissa: ovvero l’alcol etilico. Questi affermò di aver scoperto la “quinta essenza” o “quintessenza”, cioè la panacea per tutte le malattie. È questa l’origine del termine acquavite, e deve essere presa alla lettera…
Arnald de Vilanova (1240-1311), un medico di Montpellier, utilizzò anch’esso le tecniche di distillazione applicandole alle piante, e fondò in questa città la prima scuola di medicina d’Europa.

Il medico deve amare gli uomini

Abbiamo molti altri debiti di riconoscenza con gli alchimisti e in particolare, con Paracelso.

« Non è possibile amare la medicina senza amare gli uomini », diceva.

Eccellente chirurgo (per il suo tempo), preconizzava di mantenere pulite le ferite: invece di far soffrire il malato detergendo o bruciando le carni come indicava la medicina araba, preferiva utilizzare la “mummia”, un composto a base di oli essenziali, oppure dei procedimenti alchemici come il sale d’argento, le cui proprietà asettiche sono state dimostrate in seguito (vedi l’argento colloidale).
Infine Paracelso era irremovibile sulla necessità che un medico dovesse essere assolutamente onesto, serio e consapevole delle proprie responsabilità:

« vi raccomando di non essere ossessionati dal guadagno, di disdegnare il superfluo e la fortuna, di visitare talvolta gratuitamente i malati », diceva.

e « Il medico non deve vantarsi troppo… Deve sapere che cosa vuole la natura, e che solo essa è il primo medico. »

Non potremmo dirlo meglio!

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